Luogo che vai, Pesche dolci che trovi

Sono un dolce di carnevale, ma, a differenza di castagnole e frappe, le pesche dolci si preparano anche in altri periodi dell’anno. Sono deliziose. Non a caso questa prelibatezza è entrata di prepotenza a far parte dei prodotti da forno non solo dell’Emilia Romagna, ma anche di diverse altre regioni d’Italia, soprattutto Umbria, Marche, Toscana e Abruzzo. Però ce ne sono di due tipi. A cambiare è la consistenza.

Quelle emiliano romagnole essendo a base di pasta frolla sono più consistenti, a differenza delle toscane (nate a Prato) dove l’involucro è molto più morbido essendo la crema avvolta da pasta brioche. Però ci sono molti comuni denominatori a partire dalla forma tonda. C’è poi il ripieno, soprattutto di crema pasticcera e cioccolato. Ma stanno crescendo gli appassionati della crema di nocciola.

Ma il vero elemento distintivo è la colorazione rossa data dall’Alchermes nel quale vengono bagnate prima di essere rotolate nello zucchero semolato. Non è invece molto diffusa l’abitudine di metterci l’osso: una mandorla sgusciata e pelata inserita nella crema. È una delizia soprattutto perché regala quella stupenda parte croccante.

Per prima cosa i gusci vanno cotti a 165° per 8/10 minuti, devono rimanere chiari. Quando saranno freddi, va scavato il centro, dalla parte piatta, con un coltellino. Una volta si usavano i gherigli delle pesche gelosamente conservati. Poi vanno spennellate nell’alchermes e, di seguito: farcite, accoppiate e messe in frigo a rassodare. Dopo un paio d’ore si bagnano di nuovo con l’alchermes (attenzione a non inzupparle, sarebbero rovinate) e dopo cinque minuti di riposo il passaggio nello zucchero semolato per farle avvolgere da una leggera “brina” che conferisce una piacevole croccantezza e muove i sapori nel palato.

Difficile è risalire alla primogenitura. Non vi sono documenti ufficiali che ne attestino l’origine come non vi sono ricette ufficialmente riconosciute come originali. Le prime notizie storiche risalgono al 1800. Ma pare che all’inizio non fosse utilizzato l’alchermes, ma si ricorresse all’uso di altri liquori che però le rendevano più alcoliche e più secche. Quindi meno ruffiane di quelle attuali.


Davide Buratti
Giornalista in pensione, appassionato di enogastronomia. Nato e cresciuto in campagna, ha sempre mantenuto un forte legame con le sue tradizioni e con quei sapori che si irradiavano dal camino o dalla stufa a legna, quella di colore bianco che nelle sere invernali è stata il punto di riferimento per tante generazioni.
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