Branzanti, tra Argentina, States e Wine Club

Luca Branzanti è il classico esempio di come un problema (pandemia) si possa trasformare in una opportunità. Trattenuto forzatamente in Romagna a causa dell’emergenza sanitaria, dopo 7 anni negli States, ha deciso di dare vita al primo wine club con personalizzazione del prodotto (mywineclub.it). Non un classico sito di e-commerce, bensì un club che va incontro alle richieste degli utenti. Già presente negli Usa, questa tipologia di servizio è una novità in Italia. L’idea non nasce a caso, ma è il risultato di un percorso nel mondo del vino iniziato 23 anni fa in quel di Mercato Saraceno.

Come ti sei avvicinato al vino?
All’età di 23 anni nell’azienda agricola di mio suocero, Cantina Bartolini a Mercato Saraceno. Era il 1998, nel frattempo studiavo Economia a Forlì.

L’impatto?
Mi ha segnato la vita. Iniziai come tuttofare, poi la parte commerciale e quella produttiva. In pratica ho seguito tutti i settori aziendali. Mi ha affascinato al punto che mi sono iscritto anche ad Enologia a Cesena, poi i tre livelli del Corso Ais per sommelier. Diciamo che sono 23 anni che lavoro nell’ambiente e sono innamorato del vino.

Alcuni anni dopo arriva la prima esperienza all’estero.
Sì, in Argentina nel 2006, insieme al compianto Patrick Caminati e Gianfranco Manuzzi. Abbiamo dato vita al progetto Makia.

Come è sbucata l’Argentina?
In una fiera a Singapore dove vengo in contatto con alcune aziende argentine. Era il 2004, l’area non era molto conosciuta. Decido di andare a conoscerla di persona e mi si apre un mondo totalmente nuovo: micro clima fantastico, escursione termica ottimale, vini stupendi. L’area è quella di Mendoza, come dire Barolo per l’Italia per fare un esempio. Erano presenti molti grandi produttori francesi, ma pochi dall’Italia. Capiamo che ci sono potenzialità per investire e così diamo vita a Makia.

Come va il progetto?
Fino al 2012 molto bene. L’ennesimo default dello Stato ha aperto una crisi che tutt’oggi perdura. E così abbiamo deciso di cedere una parte della tenuta a Chandon Argentina del gruppo Louis Vuitton Moet Hennessy. Rimane la grandezza di una zona che produce vini sensazionali e l’esperienza di aver conosciuto personaggi di prim’ordine come l’enologo Michelle Rolland, Paul Hobbs e Alejandro Bulgheroni.

Dopo l’Argentina, arrivano gli Usa
Per la precisione nel 2014.

Nel mondo del vino?
Certo. Due anni a New York e quattro a Boston per conto di un importatore: selezionavo le aziende vinicole italiane. Nel 2019 a Chicago apro insieme ad Enrico Marcato un’agenzia di consulenza commerciale e marketing, la Winemarcom. Insomma vivo stabilmente negli Usa, primo mercato dell’export per il nostro Paese.

L’impatto?
È un altro pianeta. Per dirne una, in Italia ero abituato a fare il giro dei clienti e confrontarmi con altri agenti, lì invece ti trovi davanti la concorrenza, in molti casi agguerrita, di ogni parte del mondo come Spagna, Australia, Nuova Zelanda, Slovenia, Croazia…

Qual è la reputazione del vino italiano in America?
Italia e Francia sono considerate il top. L’unica differenza con i Transalpini è che i loro vini sono in tutti i ristoranti, i nostri sono meno presenti. Questo la dice lunga su come la Francia ha lavorato come sistema paese in comunicazione.

Come ha inciso la pandemia?
Nel mio caso in maniera determinante, quando è arrivata ero in Italia e sono rimasto bloccato qui.

E cosa hai fatto?
Ho concluso il terzo livello del WSET (Wine & Spirit Education Trust) la più importante organizzazione mondiale formativa nel mondo del vino. In quel corso eravamo 14, siamo passati in 2. Poi ho dato vita a una nuova attività.

Quale?
My Wine Club insieme a Christian Donini. Mi sono reso conto che in Italia ci sono esclusivamente piattaforme di e-commerce e club del vino aziendali di sola vendita. Noi abbiamo rovesciato il concetto di Club: offriamo un servizio.

In che modo?
Personalizziamo l’abbonamento: affianchiamo chi ne fa parte, andiamo incontro alle preferenze, facciamo conoscere vini di piccole realtà. Negli Usa questo sistema è già attivo, in Italia mi sono reso conto che c’era un vuoto. Siamo partiti a fine 2020, i risultati stanno arrivando. Oggi abbiamo più di 60 combinazioni possibili divise tra i nostri 6 wine clubs.

Andiamo ai bilanci. La prima bottiglia?
Non so se è la prima, di certo quella che ricordo con maggior coinvolgimento: Il Rosso di Saramartina, un blend di Sangiovese e Cabernet che ho dedicato alle mie due prime figlie Sara e Martina, prodotto da Cantina Bartolini.

L’esperienza enologica più memorabile?
Due anni fa. Un facoltoso imprenditore francese mi ha contattato per rappresentare la sua azienda e lanciarla nel mercato americano. Jet privato, hotel stellati, giro nelle prestigiose zone del Bordeaux e dello Champagne. Ero l’unico italiano.

Il vino che non dimentichi.
Dico tre zone. Montalcino perché amo il sangiovese e quella è la miglior zona al mondo per questa varietà. La Borgogna, soprattutto per i grandissimi bianchi a base Chardonnay. Aggiungo infine gli Stati Uniti, ero partito con il pregiudizio di vini di bassa qualità e invece mi sono dovuto ricredere.

Qui una video intervista su Teleromagna nel Faccia a Faccia con la giornalista Romina Bravetti


Filippo Fabbri
Calciatore mancato, giornalista per passione. Una stella polare, il motto del grande Gianni Brera: “Prima di scrivere un articolo bevi un bicchier di vino”. Perchè come diceva Baudelaire "bisogna diffidare degli astemi". Contatti: filfabbri@gmail.com
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