Giunchi, Dna agricolo inventivo

Scarpe grosse e cervello fino. È un detto popolare che da sempre ha riconosciuto i giusti meriti a chi aveva scelto di lavorare la terra. Un proverbio che fa riflettere sulle persone che non hanno potuto o voluto proseguire gli studi, come chi fa il contadino che poi dimostra di avere innate capacità benché lavorino i campi e non seduti ad una scrivania.

Del resto malizia, furbizia, intelligenza non si comprano al supermercato. Sono doti e caratteristiche di una persona e non legate al grado di istruzione o al lavoro che svolge. Poi l’insegnamento puoi aiutare a progredire. Ma lavorare la terra è una grande scuola di vita. Lo è sempre stato, soprattutto quando era difficile mettere assieme il pranzo con la cena. Era il tempo in cui l’uomo doveva ingegnarsi per ottenere il massimo dalla terra e l’azdora oltre a essere l’angelo del focolare doveva essere una grande economizzatrice.

E così come alla fine dell’Ottocento, all’ombra del mattatoio del Testaccio, grazie all’ingegno e alle impellenti necessità esistenziali di vaccinari o scortichini nacque il quinto quarto, nelle case della campagna romagnole si faceva di necessità virtù creando dal nulla (a partire dalle erbe di campo) ricette succulente o eccellendo nell’arte del riciclo, passando gli abiti di generazione in generazione o, ad esempio, usando la cenere del camino come detersivo.

Ed uno degli esempi più classici della laboriosità e dell’inventiva dell’imprenditore agricolo è Enrico Giunchi. Di andare a scuola, per sua stessa ammissione, non ne ha mai avuta troppa voglia ed a quattro anni era già seduto sul trattore. Eppure ha dimostrato non solo di avere innate doti imprenditoriali, ma anche di riuscire a metterle in pratica. Ed ora ha una azienda agricola di ottanta ettari da 25 anni vocata al biologico con una cantina di tutto rispetto, ma, soprattutto, ha saputo diversificare partendo dal suo “regno”, un tipico casolare di campagna disteso come un vecchio addormentato nella collina di Rio Marano. È lì che a metà degli anni Novanta diede vita alla Fattoria Didattica, tra le prime a livello nazionale.

Poi in centro a Cesena creò l’innovativo Vivì, enoteca con cucina, che chiuse non perché non andasse bene (anzi), ma perché voleva concentrarsi su un altro progetto poi destinato a lanciare una tendenza: il format il picnic tra gli ulivi. Da cosa nasce cosa e lì, nella collina a Rio Marano, dove tutto era iniziato ha proseguito il percorso innovativo, interessante e per certi versi coraggioso. Come ad esempio la scelta, per chi non beve il vino, di non servire bibite gasate, ma succhi di frutta a chilometro zero. Oppure togliere dalla carta limoncello e similari e, per il fine cena, offrire quattro soluzioni: nocino, amaro e due grappe. E ogni anno aggiorna la proposta perché è consapevole che l’innovazione è fondamentale, ma sempre rispettando il progetto di filiera che è l’elemento fondamentale per chi, come Enrico Giunchi, ha un dna rurale.


Davide Buratti
Giornalista in pensione, appassionato di enogastronomia. Nato e cresciuto in campagna, ha sempre mantenuto un forte legame con le sue tradizioni e con quei sapori che si irradiavano dal camino o dalla stufa a legna, quella di colore bianco che nelle sere invernali è stata il punto di riferimento per tante generazioni.
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